Il nome della rosa – Umberto Eco. Esoterismo, simboli, significati

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di Romina Malizia

“Il nome della rosa”. Libro meraviglioso, film intrigante e misterioso. Come lo stesso Umberto Eco ricordava nelle sue interviste, spinse il regista per tutto il film a tradire ”bene il libro, perche’ per adattare bene bisogna tradire bene”. Intriso di significati, simbologie, richiami, non esiste un’unica interpretazione dei segni che lui stesso voleva fossero decifrati da coloro che leggono. Un vero mistero che resterà tale, il romanzo storico svela la realtà dell’epoca con il tipico narrare dei cronisti medievali dai toni didascalici. Vengono riportate di seguito possibili interpretazioni delle simbologie, che a mio dire possono essere approfondite ulteriormente. Alla fine del libro Eco infatti asserisce: fine del racconto: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (la rosa esiste in quanto nome, possediamo solo nudi nomi)un verso da De contempo mundi di Bernardo Morliacense, un benedettino del XII secolo. Il messaggio che esprime è contenuto nell’idea che di tutte le cose scomparse ci restano solo nomi “…il lettore tragga le sue conseguenze…”.

Il nome della rosa, libro-film successo planetario
In volume nel 1980 poi sul grande schermo nel 1986 con Connery

Il successo planetario del semiologo imprevedibile arrivò da subito con il suo primo romanzo, Il nome della rosa, uscito nel 1980, un volumone di 618 pagine seguito poi dall’altrettanto monumentale. Il pendolo di Focault dell”88, che costruiscono entrambi complesse vicende misteriche, dall’indagine poliziesca a quella esoterica, per mostrare come da tutto questo l’unico mezzo per salvarsi e’ quello di usare la ragione, sapendo che ciò non porta necessariamente alla verità. Per far questo naturalmente il quadro di fondo e’ quello di una crisi dei valori e della ragione. Il tutto ambientato nel medioevo, nell’arco di sette giorni, in un monastero benedettino dove si susseguono una serie di morti che sembrano tutte ruotare intorno alla biblioteca e ad un misterioso manoscritto. Ecco che il Guglielmo da Baskerville de Il Nome della Rosa, ripropone piuttosto ossessivamente il tema della infinita onnipotenza di Dio, idea decisamente eretica rispetto al mondo e all’ordine medievale in cui vive. Se Dio infatti e’ infinitamente onnipotente non e’ determinato dalla sua ragione, anzi può tentare e seguire infinite razionalità. Il che arriva a negare l’idea di verità e quella di sicurezza che le e’ congenita. Guglielmo vive cosi’ una profonda crisi intellettuale e nel clima di violenza in cui paradossalmente i migliori sentimenti e bisogni di pulizia hanno creato sangue e morte, egli si rivolge alla sapienza tutta britannica dell’ironia. La verità cui arriva alla fine della storia e’ solo una di quelle possibili e nasce, quasi per caso, da numerosi errori. Non e’ difficile in tutto questo una metafora precisa legata alla realtà dei nostri giorni e in particolare al dramma degli anni Settanta che ha messo in crisi, sconvolto, e costretto a ripensare il nostro rapporto con la realtà.

A piu’ di trent’anni dalla prima uscita in occasione degli 80 anni dell’autore arrivò una versione riveduta e corretta de ‘Il Nome della Rosa’, il longseller che nel frattempo aveva venduto oltre 30 milioni di copie nel mondo, di cui 7 milioni in Italia ed era stato tradotto in 49 paesi. Pubblicato da Bompiani nel settembre del 1980 e diventato sei anni dopo un film per la regia di Jean-Jacques Annaud (SCHEDA ANSA CINEMA), anch’esso intitolato ‘Il nome della rosa’. Un film con nel cast Sean Connery, Christian Slater, F. Murray Abramas, e che ha incassato circa 80 milioni di dollari nel mondo e ha vinto tantissimi premi, tra cui quattro David di Donatello, tre Nastri d’argento, due Bafta e un Cesar. Il film di Annaud era un ‘tradimento consensuale’ del libro, e lo stesso Eco, raccontava il regista, l’aveva spinto per tutto il film a tradire ”bene il libro, perche’ per adattare bene bisogna tradire bene”. Il film, una produzione Italo-Franco-Tedesca, era stato prodotto per l’Italia da Franco Cristaldi, ed era costato 32 miliardi di lire.

http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/2016/02/20/-il-nome-della-rosa-libro-film-successo-planetario_bf5ca094-d7b2-45a8-bb27-2e7aada6424d.html

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“Il nome della Rosa” e i misteri della Rosa Rossa.

1. Premessa.

Il romanzo di Umberto Eco è un romanzo che contiene molti riferimenti impliciti alla Rosa Rossa e destinato a far capire molte cose di questa organizzazione, se lo si legge attentamente e cogliendone i numerosi riferimenti nascosti. Lo stesso Eco dice che il suo libro può avere diversi piani di lettura e qualunque lettore capisce che tale romanzo contiene una serie di riferimenti: alcuni espliciti, altri impliciti. Tutta la trama è costruita attraverso una fitta rete di citazioni che rimandano ad altri libri e/o autori. Tanto che qualcuno ha detto che il romanzo di Eco, in realtà, è un libro scritto “con libri e sui libri”. Sempre Eco, poi, ci dice che “i libri parlano sempre di altri libri”. Cosa vuol dire Eco con questa frase enigmatica? Egli vuol dire che la Rosa Rossa nei secoli ha comunicato attraverso i libri (ma oggi anche attraverso film, giornali, ecc…) e, leggendo attentamente alcune opere, esiste una fitta rete di citazioni e rimandi, che comunicano messaggi precisi. Il significato generale dell’opera mi è sempre apparso abbastanza chiaro: chiunque arriva a scoprire “il nome della Rosa” muore. Mi ero sempre domandato però a quale libro specifico si riferisse Eco, quando ne “Il nome della rosa” parla di un libro “che uccide e per il quale gli uomini uccidono”. Esiste, per la Rosa Rossa, un libro importante che uccide e per cui si uccide? Ad un’analisi attenta la risposta diventa chiara. Anzitutto il racconto si incentra su di un libro maledetto e una serie di omicidi che avvengono in un convento. Nel romanzo il libro maledetto è il secondo libro della “Poetica” di Aristotele, che tratta della commedia. A quale libro si riferisce realmente Eco? Quale è questo libro maledetto?
E’ realmente la “Poetica” di Aristotele, o altro?

2. Il misterioso libro proibito: la Divina Commedia di Dante.

Partiamo dal libro maledetto nel romanzo, e concentriamoci non tanto sul titolo, quanto sull’argomento che tratta: esso è il secondo libro della “Poetica” di Aristotele, dedicato alla “Commedia” e al riso. In realtà il testo è inesistente, in quanto questa parte dell’opera aristotelica è andata perduta. “Commedia” è il titolo reale della Divina Commedia di Dante. Il termine divina apparve infatti solo successivamente, perché Dante aveva initolato la sua opera semplicemente “Comedìa”, senza il divina. Perché Eco sceglie proprio l’opera di Aristotele come libro maledetto su cui incentrare tutta la trama del suo romanzo? Perché tra Dante ed Aristotele esiste un rapporto profondo, in quanto egli lo definisce “maestro di coloro che sanno” e la struttura dell’opera dantesca è “tolemaico aristotelica”. Altro riferimento che ci riconduce a Dante è in uno dei protagonisti del romanzo, ovverosia nella figura dell’assassino; il suo nome è Jorge da Burgos, ed è un frate che spesso, nel suo parlare, utilizza espressioni chiaramente riferentesi a San Bernardo di Chiaravalle. Qui il riferimento dantesco è duplice.

1) San Bernardo è colui che guida Dante in Paradiso, negli ultimi canti, per arrivare alla Candida Rosa dei Beati. E san Bernardo non è stato certamente scelto a caso; egli era infatti il creatore della regola templare, il che conferma quello che molti studi storici hanno affermato, cioè che Dante era un templare e un rosacroce.

2) Il nome del personaggio richiama esplicitamente Jorge Luis Borges. Costui è uno scrittore e poeta, tanto appassionato di Dante che le sue opere sono state definite “intrise di immanentismo dantesco”. L’autore, tra le altre cose, fa spesso riferimento simbolico alla rosa, e ha dedicato a Dante più di un’opera, in particolare “Nove saggi danteschi”; le sue opere contengono inoltre riferimenti cabalistici e alla cultura ebraica (“Il Golem”, “Una difesa della Cabala”). C’è poi una sua opera, in particolare, che fonde riferimenti danteschi a riferimenti cabalistici (“L’Aleph”; ovverosia la prima lettera dell’alfabeto ebraico). Si pensi che Borges ha addirittura influenzato Alan Moore, dai cui fumetti sono stati tratti i film “V per vendetta” e “From Hell, la vera storia di Jack lo squartatore”, ove i riferimenti alla Rosa Rossa sono assolutamente espliciti. Inoltre, proprio perché la rosa è uno dei temi ricorrenti nell’opera di Borges, uno dei suoi racconti si intitola “La rosa di Paracelso”, racconto dedicato alla figura del grande alchimista e rosacroce. E una delle sue opere poetiche si intitola “La rosa profonda”.

Nessun personaggio poteva quindi essere più indicato, come assassino e difensore del libro maledetto, di Jorge da Burgos. Il quale ricorda lo scrittore Borges non solo nel nome, ma anche nelle caratteristiche: la cecità, la biblioteca, il labirinto, lo specchio… sono tutti temi presenti nel romanzo di Eco, che alludono allo scrittore argentino, le cui opere hanno proprio questi temi ricorrenti. Già da queste poche osservazioni ci si può convincere che in realtà il libro misterioso che non deve essere mai aperto è la Divina Commedia. Ma i riferimenti e il parallelismo tra Il nome della Rosa e la Divina Commedia non sono finiti qui. Intanto il libro di Eco si presta a 4 livelli diversi di lettura; esattamente come la Divina Commedia di Dante (letterale, allegorico, morale ed anagogico). Poi, l’ispirazione di base del libro – pare – viene da un libro dal titolo “L’ordalia”, di Italo Alighiero Chiusano. Alighiero, proprio come Dante Alighieri. Pensiamo ora al titolo stesso. Il nome della Rosa. Tutta la Divina Commedia è, in fondo, il viaggio di Dante per arrivare a vedere Dio e la Candida Rosa dei Beati. Eco ha, quindi, disseminato la sua opera di indizi che riconducono a Dante Alighieri. Si può allora concludere che il libro maledetto, il libro che non si può decifrare, il libro “che uccide e per il quale gli uomini uccidono”, altro non è che la Divina Commedia di Dante. Del resto, che i riferimenti danteschi compaiano in molti dei delitti che hanno insaguinato l’Italia, lo diciamo da tempo; dal delitto Moro, al delitto di Cogne, ai delitti del Mostro di Firenze, la maggior parte dei delitti della Rosa Rossa sono intrisi di simbologia dantesca (v. al riguardo il video “Delitti mediatici e disinformazione”, oppure gli articoli relativi alla Rosa Rossa). Soprattutto, la maggior parte degli omicidi dei testimoni o dei personaggi scomodi avvengono tramite la cosiddetta legge del contrappasso dantesco, come abbiamo detto fin dal primo articolo sull’omicidio massonico: la persona muore con una pena adeguata al peccato commesso. Ad es. i testimoni di Ustica, che muoiono in un incidente aereo; Fabio Piselli, che doveva testimoniare sul rogo del Moby Prince e per poco non muore nell’auto in fiamme; Elisabetta Ciabiani, che doveva testimoniare riguardo ai delitti del Mostro di Firenze e si “suicida” con un coltellata sul pube; Luciano Petrini che doveva fare una perizia sulla morte del collonnello Ferraro (suicidatosi impiccandosi al portascuigamani del bagno) e morto a colpi di portasciugamani; oppure penso alla recente morte di un carabiniere di Viterbo, che si è suicidato sparandosi proprio nel quartiere Santa Barbara (la protettrice dei militari). In particolare, quando deve essere eliminata una persona scomoda, l’uccisione avviene spesso per mezzo di un finto suicidio (generalmente per impiccagione, oppure la persona si spara). Il suicidio è la morte dei traditori (si suicida infatti Giuda, dopo aver tradito Cristo; e si suicida il personaggio dantesco Pier della Vigna, perché non reggeva la vergogna delle accuse di tradimento a Federico II). Il messaggio finale del libro è quindi chiaro. Chiunque si avvicini a capire il nome della Rosa, e riesca a capire i segreti della Divina Commedia (collegandola ai delitti dei giorni nostri), farà una brutta fine.

3. Riflessioni conclusive, e un po’ di coincidenze.

Resta da vedere se arriveranno i soliti geni a dire che questi riferimenti danteschi sono casuali. Se infatti questa solfa della “coincidenza” ci viene propinata ad ogni piè sospinto per i riferimenti simbolici nelle canzoni di Rino Gaetano, per i film di Benigni, ecc., è però impossibile pensare ad una coincidenza per un romanzo scritto da una persona colta come Umberto Eco, che è senz’altro una delle persone più colte e sottili che abbiamo in Europa, il quale ha volutamente, e per sua stessa ammissione, disseminato il romanzo di allusioni e citazioni. Peraltro stiamo parlando di un personaggio che conosce benissimo i Rosacroce, Dante, i Templari, il simbolismo, e tutto ciò di cui noi parliamo in questo blog. Parlare di una coincidenza sarebbe veramente una follia, oltre che offensivo nei confronti di Umberto Eco! A questo punto, appare chiaro il significato della frase conclusiva al libro di Eco. Queste sono le sue parole:

Pare che il gruppo dell’Oulipo abbia recentemente costruito una matrice di tutte le possibili situazioni poliziesche e abbia trovato che rimane da scrivere un libro in cui l’assassino sia il lettore. Morale: esistono idee ossessive, non sono mai personali, i libri si parlano tra loro, e una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi.

Cosa vuole dire Eco con queste frasi? Dicendo “i libri si parlano tra di loro”, allude anche al fatto che alcune organizzazioni – in particolare la Rosa Rossa – parlano tra di loro tramite i libri. Il concetto lo ripete molto meglio in un’altra parte del libro (pag. 288 dell’edizione Bompiani del 2007). Scrive Eco, facendo parlare Guglielmo da Baskerville: “Spesso i libri parlano di altri libri”.

“Ma allora – chiede Adsoa cosa serve nascondere i libri se dai libri palesi si può risalire a quelli occulti?”. “Sull’arco dei secoli non serve a nulla. Sull’arco degli anni serve a qualcosa. Vedi infatti come noi ci troviamo smarriti”. “E quindi una biblioteca non è uno strumento per distribuire la verità, ma per ritardarne l’apparizione?”. “Non sempre e non necessariamente. In questo caso lo è”.

Qui Eco sta dicendo che la verità sulla Rosa Rossa e i Rosacroce prima o poi verrà fuori, come in effetti sta succedendo. Quindi, in teoria, non serve a molto nasconderla per mezzo di simboli, nei libri, nell’arte, ecc. Ma nell’immediato serve a qualcosa (infatti, pochi hanno capito il filo rosso che unisce molti delitti, i quali rimangono sempre irrisolti; vai infatti a convincere un magistrato ad aprire come omicidio un caso di suicidio in ginocchio, oppure uno dei tanti casi di omicidio-suicidio che infestano il nostro paese facendogli notare i riferimenti simbolici che riconducono alla RR… un’impresa impossibile!). Rimane solo da scrivere un romanzo in cui l’assassino sia il lettore, dice poi Eco. C’è da notare che egli lascia fuori un’altra possibilità: un libro in cui l’assassino sia lo scrittore. La lascia fuori probabilmente perché questo tipo di romanzi è già stato scritto. Infatti molti autori appartenenti alla Rosa Rossa hanno pubblicato libri su delitti commessi da… loro stessi (o addirittura hanno fatto dei film, su delitti commessi da loro stessi). Ora, ci dice Eco, una vera indagine poliziesca dovrebbe provare che i colpevoli siamo noi, cioè noi scrittori. Ma, lascia intuire, le indagini poliziesche (perlomeno quelle sui delitti più efferati) non sono mai vere, e la prova non verrà mai raggiunta. Oggi, la maggioranza degli investigatori e della gente è propensa a pensare che le nostre idee siano fantasiose. Che la Rosa Rossa non esista. Come disse Amedeo Longobardi al convegno su Rino Gaetano? Testualmente: “Avendo lavorato al delitto di Erba, non ha trovato indizi che riconducano quel delitto alla Rosa Rossa”. Nessun indizio, nessuna prova. Infatti, a parte il nome dell’assassina (che unita al cognome forma la doppia, RR, marchio della Rosa Rossa), il nome della città (Erba), il nome della città confinante (Albavilla), il nome delle vittime, la data, la dinamica… a parte tutto questo, non c’è nulla che riconduca alla Rosa Rossa. Lo stesso Umberto Eco, nella prefazione al libro “Storia dei Rosacroce” di Paul Arnaud, scrive che i Rosacroce non si sa se siano davvero esistiti.

Già. Le principali città italiane, Firenze, Napoli, Milano, Torino, Roma, e anche Viterbo, hanno una pianta completamente incentrata sul simbolismo dei Rosacroce; romanzi, opere d’arte, quadri, sono intrisi di simbologia rosacrociana; esistono migliaia di titoli di libri che riguardano i Rosacroce; centinaia di opere sono scritte da autori che si definiscono “rosacroce” e in molti casi sono stati pubblicati i testi con i loro riti. La maggior parte dei delitti segue una simbologia rosacrociana e dantesca, e tali delitti ricalcano esattamente quello che è scritto nei libri. Ma la maggior parte degli autori nega ancora che esistano. Compreso, ovviamente, Umberto Eco che, solo casualmente, ha intitolato il suo libro “Il nome della Rosa”. E probabilmente per caso ha iniziato il prologo del suo libro con “In principio era il verbo e il verbo era Dio, e il verbo era presso Dio”, che è il primo verso del Vangelo secondo Giovanni (il santo patrono della Rosa Rossa). Sempre per caso il primo capitolo inizia con “era una bella mattina di fine novembre”; Eco ha dichiarato (http://www.kataweb.it/multimedia/media/333828) che questo incipit è un riferimento al famoso “era una notte buia e tempestosa”, con cui inizia (a parte il romanzo scritto da Snoopy) un racconto di Edward Bulwer Lytton, autore di “Zanoni”, l’unico romanzo in tutta la letteratura mondiale che è dichiaramente rosacrociano e che tratta di Rosacroce. Un romanzo scritto da un rosacroce che – pare – è stato il vero fondatore della Golden Dawn (da cui la Rosa Rossa discende). La famosa frase finale: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”; la rosa esiste in quanto nome, possediamo solo nudi nomi.

Leggiamo attentamente poi i primi passi de “Il nome della rosa”. Anche qui l’autore ci sta dicendo delle cose molto importanti.

“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male.

Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione.”

Insomma, Eco ci dice chiaramente che vuole lasciare “segni di segni”, “perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione”, ovverosia ci dice che vuole lasciare dei segni, affinché siano decifrati da altri. Non sappiamo se li abbiamo decifrati correttamente.

http://paolofranceschetti.blogspot.it/2010/06/il-nome-della-rosa-e-i-misteri-della.html

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Il nome della rosa di Umberto Eco

Marco Tonello

Anno di pubblicazione: 1980

TRAMA

In una abbazia benedettina nell’Italia settentrionale alle soglie del XIV secolo viene consumato un delitto inspiegabile: Adelmo, un abile frate minatore, viene ritrovato morto ai piedi del dirupo al quale si affacciava la biblioteca del monastero. Guglielmo da Baskerville, un francescano che stava tenendo una serie di incontri con gli abati dell’Italia centro-settentrionale, trovandosi nell’abbazia, viene incaricato dall’abate, che faceva affidamento sulle sue doti di ex-inquisitore, di far luce sul mistero. Nel giro di poche ore un altro frate, Venazio, viene assassinato e Guglielmo deve così indagare con il suo fedele discepolo Adso da Melk, in un caso ben più complicato del previsto. La mano occulta continua a colpire nel silenzio e altri due frati, Berengario e Severino, sono trovati morti, il diabolico assassino sembra seguire alcuni versetti dell’Apocalisse che preannunciano i segni che precedono l’Anticristo. I misteri sono troppi e troppo nascosti ma tutto sembra ruotare attorno ad un libro e ad una stanza irraggiungibile, il “finis Africae”, celata nell’immensa biblioteca che come un enorme labirinto custodiva milioni di volumi ed era inaccessibile a tutti monaci ad eccezione del bibliotecario, frate Malachia. Sono passati ormai quattro giorni e Guglielmo si trova ancora in alto mare quando giunge nell’abbazia Bernardo Guidoni, malvagio inquisitore che grazie a un processo con prove indiziarie e poco attendibili arresta coloro che erano, suo avviso, i colpevoli del delitti: Remigio, il frate cellario e Salvatore, entrambi in realtà innocenti ma incriminati perché invisi al Guidoni. I frati avevano infatti un passato da “eretici”, perché avevano preso parte alle scorribande di Dolcino, frate bruciato sul rogo a Biella nel 1305. Soddisfatto del suo operato Gui lascia l’abbazia ma già il giorno seguente viene ucciso Malachia. Ormai le vicende cominciano a quadrare nella mente astuta di Guglielmo che viene però invitato dall’Abate ad andarsene, forse sapeva già più del dovuto. Nella notte del sesto giorno la tragica risoluzione del mistero: il colpevole era ovviamente il più insospettabile dei monaci, Jorge, che , nonostante la vecchiaia e la cecità, aveva cosparso del veleno sulle pagine di un libro che non voleva arrivasse nelle mani di nessuno: l’unica copia esistente del secondo libro della Poetica di Aristotele. Dopo che anche l’Abate, l’ultima persona a conoscenza dei segreti della biblioteca, viene ucciso, Guglielmo scopre il modo di accedere nel finis Africae dove trova Jorge e il libro tanto desiderato dai frati uccisi. Il finale è apocalittico: l’intera abbazia prende fuoco, vanno in fumo i suoi enormi tesori e Jorge muore nella biblioteca dove brucia anche il prezioso manoscritto. A Guglielmo e Adso non resta altro che lasciare sconsolati quel luogo benedetto da Dio ma maledetto da gli uomini.

TIPOLOGIA

Il testo è così aperto e vario nelle sue forme che può sintetizzare varie tipologie di romanzo. Innanzitutto è un romanzo storico di massimo livello in quanto il passato non è solo uno sfondo animato da personaggi storici. Come nei Promessi Sposi, ogni singola azione di un qualsiasi personaggio è tipica dell’epoca, il modo di pensare è centrato sui parametri di quel periodo e le vicende inventate si intrecciano verosimilmente con eventi storici e personaggi reali. Il testo può anche essere considerato un romanzo di formazione se si pone attenzione alla crescita culturale e morale del giovane Adso da quando alle pendici del monte è stupito dall’astuzia del maestro fino a che alla fine del racconto sarà lui stesso formulare ipotesi e tesi. Infine nel romanzo convivono due livelli di narrazione: se si dà maggiore evidenza alla trama, emerge l’anima poliziesca del romanzo;se invece ci si concentra sulle parole dei personaggi, emerge la caratteristica didascalica dell’opera.

DIVERSITA’ DA ALTRI ROMANZI

Già nel 1980, alla sua prima pubblicazione, era presente un’introduzione dell’autore nella quale afferma che il romanzo è stato ricavato da un manoscritto che ritrovò per caso e che, dopo aver preso alcuni appunti, perse a causa di varie vicissitudini. L’idea del manoscritto non sembra voler creare un alone di mistero o di maggiore credibilità all’opera, anzi è una “citazione”, la volontà di riproporre un espediente ricorrente nella letteratura settecentesca e ottocentesca. Queste almeno sono le impressioni che fa nascere nel lettore quel naturalmente … dal tono così sarcastico posto all’inizio dell’introduzione.

STRUTTURA

Il “manoscritto di Adso” è diviso in sette giornate e ciascuna giornata in periodi corrispondenti alle ore liturgiche: mattutino, laudi, prima, terza, sesta, nona, vespro e compieta.

NARRATORE

Il sistema della narrazione è molto complesso in quanto l’autore racconta una storia con le parole di un altro (Adso), avendo avvertito nella prefazione che le parole di quest’ultimo erano state filtrate da almeno altre due istanze narrative, Mabillon e l’abate Vallet. La narrazione risulta così su di un quarto livello di incassamento: l’autore dice che Vallet diceva che Mabillon ha detto che Adso disse… Le ragioni di questo complesso meccanismo ci vengono chiarite nelle Postille : Eco voleva raccontare non solo del Medio Evo, ma anche nel Medio Evo e per bocca di un cronista dell’epoca. L’autore era in quegli anni un narratore esordiente e afferma ” …. mi vergognavo a raccontare….”: Il problema si risolse creando la maschera Adso ma anche allontanando il più possibile la sua narrazione dalla prima stesura di Adso, ecco perché la narrazione è di quarto livello. E’ anche ovvio che Adso impone il suo punto di vista a tutto il racconto. Tuttavia si riproponeva un altro problema: Adso racconta a ottant’anni quello che ha visto a diciotto. In tutto il romanzo sono due le voci che si rincorrono quella di Adso giovane e quella di Adso vecchio. Poiché entrambi non hanno capito a fondo ciò che hanno vissuto Eco è riuscito a ” far capire tutto attraverso le parole di qualcuno che non capisce nulla”.

STILE

Secondo il manoscritto il testo è una traduzione dal francese di Vallet che, a sua volta, lo aveva tradotto dal latino di Asdo. In realtà sappiano che Eco si è ispirato al modo tipico di narrare dei cronisti medioevali, ha studiato il loro timbro e andamento e lo ha riproposto. Il romanzo assume un tono didascalico che convive con un tono cronistico senza però bruschi contrasti. Il tono è didascalico perché tale era lo stile del cronista medioevale, voglioso di introdurre nozioni enciclopediche ed è allo stesso tempo giornalistico perché la cronaca era allora il modo preferito per raccontare gli avvenimenti ” se noi oggi parliamo di cronaca è perché allora si scrivevano tante cronache”.

LUOGHI

L’intera vicenda si svolge tra le mura di un’abbazia benedettina che sorgeva in una zona imprecisa tra Pomposa e Conques, forse lungo il dorsale appenninico tra Piemonte, Liguria e Francia. L’abbazia è stata creata dalla mente dell’autore che, per un intero anno, si è dedicato alla ricerca di materiale e alla creazione di un vero e proprio mondo immaginario nel quale si doveva muovere con estrema facilità e conoscendo alla perfezione ogni suo singolo ambiente. In questo intento è riuscito talmente bene che i suoi dialoghi furono definiti “cinematografici” dato che duravano esattamente il tempo necessario ai personaggi per spostarsi da un luogo all’altro dell’abbazia. 11 monastero è ovviamente pieno di misteri, passaggi segreti, stanze nascoste: tutti ingredienti necessari per la buona riuscita dell’intreccio giallo. 1 due luoghi più importanti sono sicuramente il labirinto e la chiesa. Quest’ultima appare come un luogo di rifugio e di conforto, mentre il labirinto inaccessibile per i monaci sembra rievocare il simbolo biblico dell’albero del bene e del male: così come ad Adamo era stata vietata la conoscenza di ciò che era giusto ,o sbagliato, così ai frati era vietato questo luogo che custodiva il sapere utile o dannoso di quel tempo.

TEMPO

Gli eventi narrati si svolgono alla fine del novembre 1327 e coprono la durata di sette giorni. Il ritmo è regolare, le accelerazioni le pause narrative sono dislocate con estremo equilibrio. In questo senso i lunghi flash-backs, necessari a spiegare gli eventi passati ( storia di Dolcino, e le digressioni descrittive ( descrizione del portale della chiesa, del tesoro della cripta, dell’Edificio… ) sono abilmente bilanciate con altrettante sequenze fortemente narrative. Inoltre quando l’attenzione del lettore viene man mano a mancare, giungono puntuali le anticipazioni di Adso: frasi brevi ed incisive ma sufficienti a risvegliare il desiderio di lettura. La regolarità del ritmo è anche determinata dalla costante scansione temporale del giorno e della notte che lascia ben poco spazio alle ellissi implicite ed esplicite. “… Un grande romanzo è quello in cui l’autore sa sempre a che punto accelerare, frenare e come dosare questi colpi di pedale nel quadro di un ritmo di fondo che rimane costante”.

CONTESTO

Le vicende si svolgono agli inizi del XIV secolo, periodo medievale scelto dall’autore per pure ragioni pratiche. Il contesto storico considera la Chiesa di questi anni, le lotte interne tra minoriti francescani e frati benedettini, lotte contro i pontefici corrotti che soggiornano ad Avignone e il continuo contrasto tra i sovrani europei e il potere ecclesiastico, le guerre tra guelfi e ghibellini. Nel romanzo rivivono alcuni personaggi storici che agiscono sullo sfondo delle vicende sopra citate: Michele, minorita francescano acceso difensore dell’integrità del suo ordine contro false insinuazioni del papa e Bernardo Guidoni, perfido inquisitore benedettino, agiscono direttamente nella storia; ci sono poi Giovanni XXII, pontefice bramoso di potere e di ricchezze; Bonifacio VIII, Dolcino, frate ereticale bruciato sul rogo a Biella nel 1305 e Filippo il Bello che vengono solo presentati per bocca di altri. Il Medio Evo, conosciuto molto bene dall’autore, vive così nel romanzo, vicende reali e immaginarie si intrecciano e diventano complementari. Le fonti sono numerose e vengono citate nelle postille, sono testi medievali e moderni la cui conoscenza è necessaria per dipingere un così minuzioso affresco storico. Dice lo stesso Eco: ” IL presente lo conosco solo attraverso lo schermo televisivo, mentre del Medio Evo ho una conoscenza diretta”.

PROTAGONISTA

Il protagonista ideato dall’autore è Guglielmo da Baskerville, un frate francescano che vantava una carriera di astuto inquisitore e che nel 1327 era sceso in Italia per organizzare una serie di incontri tra delegazioni di frati benedettini fedeli a Giacomo Cahors, Giovanni XXII, e frati minoriti francescani fedeli agli ideali della loro regola di vita. Guglielmo viene descritto direttamente da Adso nelle prime pagine del romanzo: sua statura superava quella di un uomo normale… aveva occhi acuti e penetranti…il naso un po’ adunco confetiva al suo volto l’espressione di uno che vigili… Anche il mento denunciava in lui una salda volontà… poteva avere cinquanta primavere ma muoveva il suo corpo con una agilità che a me sovente faceva difetto…durante il periodo che trascorremmo all’abbazia gli vidi sempre le mani coperte dalla polvere dei libri…egli possedeva una straordinaria delicatezza di tatto…”. La psicologia di questo personaggio è complessa e va via via modellandosi lungo le pagine del romanzo: è arguto, intelligente e tenace, come già si può intuire dalla descrizione fisica, superiore agli altri, come sembra suggerirci la sua statura che “…superava quella di un uomo normale”, vigoroso, assetato di sapere, innamorato della cultura intesa non come semplice erudizione e con una mentalità aperta alle novità e a culture disprezzate in quel tempo. Per questa caratteristica sembra assumere tratti troppo moderni rispetto alla mentalità dell’epoca in cui ha vissuto ma, ogni aspetto del suo carattere sembra essere proiettato verso il futuro: dalle strane macchine che aveva nella sua sacca, alle idee che perseguiva, alle lenti che portava a mo’ di occhiali (strumento allora sconosciuto). Guglielmo venerava come maestro Ruggiero Bacone, frate proveniente da Occam, famoso appunto per le sue idee all’epoca modernamente rivoluzionarie. Come il suo maestro, cercava. di leggere negli avvenimenti della natura, cercava indizi, formulava ipotesi e traeva conclusioni: il suo modo scientifico di procedere ha ben poco da invidiare a Galileo e Pitagora. Il suo modo di concepire la religione era “rivoluzionario” (o almeno così appariva agli occhi di Adso) in quanto Guglielmo non era un “bigotto”, egli cercava cioè di debellare le obsolete convinzioni che la Chiesa aveva inculcato da secoli per essere portatore di una nuova mentalità aperta a tutti e a tutte le culture, senza giudizi e preconcetti. Forse Guglielmo può sembrare freddo e calcolatore, ma non è così. Dice Eco: “…egli non ha un moto di pietà ma proprio in questo consiste la sua pietas…”.

ALTRI PERSONAGGI

Adso, frate benedettino discepolo di Guglielmo, può essere considerato un coprotagonista in quanto svolge un ruolo di primo piano nelle vicende. Egli è utilissimo all’autore perché è attraverso i suoi occhi di diciottenne e il suo racconto di ottantenne che noi conosciamo le vicende. Giovane e inesperto questi sette giorni diventano per lui un vero e proprio periodo di formazione: all’inizio del romanzo è stupito di fronte alle qualità deduttive del maestro (vedi cavallo Brunello) mentre alla fine è lui stesso che formula ipotesi e tesi e dà a Guglielmo due informazioni fondamentali per risolvere il caso. Escludendo Adso, Guglielmo e i personaggi storici già presentati, l’Abbazia è un piccolo universo separato dal resto del mondo, fitto di regole, ombre e misteri, una rappresentazione simbolica in scala ridotta del mondo reale. E’ popolata da frati che, come probabilmente avveniva in quel tempo, non erano esempi di perfetta santità, avevano le loro virtù ma anche inconfessabili vizi. Ecco i più importanti:

Malachia, il bibliotecario “…l’espressione di quest’uomo era per natura quella di chi celi o tenti di celare un inconfessabile segreto…”; Severino, l’erborista, amava la sua attività e si dimostrò un valido aiuto per Guglielmo;

Jorge, vecchio e sapiente, cupo e cieco condannava i confratelli di non seguire una vita pura e attendeva la venuta dell’Anticristo;

Salvatore, frate che aveva un passato di minorita e di dolciniano e che si era rifugiato insieme a Remigio, il cellario, nell’abbazia.

Berengario, Venazio e Adelmo sono i primi tre frati a morire, frequentatori dello scrittorio e uniti da un tremendo segreto;

Bencio “… è vittima di una grande lussuria… come molti studiosi ha la lussuria del sapere. Del sapere per se stesso…”;

Ubertino, frate amico di Guglielmo col quale aveva condiviso in passato grandi avventure, personaggio mistico che agisce sempre e solo nella chiesa;

Nicola, il fabbro, grande lavoratore, è uno dei pochi personaggi totalmente positivi; l’Abate, persona contraddittoria, odiato da molti, desideroso di sapere, adulatore di se stesso.

Alinardo, Pacifico da Tivoli, Aymaro d’Alessandria e Pietro da Sant ‘Albano, personaggi di sfondo

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TEMI E SIGNIFICATI

Un romanzo così ampio e complesso può affrontare molteplici tematiche ed avere molti significati, chiavi di lettura, interpretazioni che sarebbe impossibile citarli tutti. Tra i temi affrontati ricordiamo: la lotta tra Chiesa e Impero, tra francescani e benedettini, la sete del sapere e le sue conseguenze, i modi di intendere la vita religiosa, gli ideali innovativi di cui è portatore Guglielmo. Se riflettessimo su queste tematiche ci accorgeremmo che non sono molte le differenze tra ieri ed oggi. Un elemento simbolico degno di attenzione è il libro e tutto ciò che appartiene al mondo dei libri: libri portatori di saggezza e di cultura ma anche di informazioni che potevano essere sconvolgenti all’epoca, la cultura portata dai libri, letta e interpretata può dare effetti contrastanti e dannosi, la chiusura del mondo cristiano agli “infedeli” viene rotta da Guglielmo che apprezza la genialità degli scrittori orientali, lo studio è il fondamento di ogni mente che deve essere pronta e veloce nei suoi ragionamenti. Anche molti avvenimenti possono avere una libera interpretazione: l’incendio dell’abbazia può essere visto come l’Anticristo atteso da Jorge e da ciò si può dedurre che secondo l’autore la fine del mondo avverrà a causa della follia degli uomini e non per un disegno divino; il processo dell’Inquisizione rimanda alla Giustizia d’oggi, spesso frettolosa e tendente a sbagliare; gli innovatori (Ubertino, Michele e lo stesso Guglielmo) sono spesso perseguitati perché andando contro una superata tradizione, minano i detentori del potere… così era e così è ancora. Va anche ricordata la morale degli umili, destinati ad essere sempre schiacciati dai potenti “…i semplici pagano sempre per tutti, anche per coloro che parlano in loro favore, anche per coloro come Ubertino e Michele, che con le loro parole di penitenza li hanno spinti alla rivolta…”. “Il romanzo è una macchina per generare interpretazioni” afferma Umberto Eco, e questa macchina funziona perfettamente anche perché il lettore sa che ogni suo sforzo sarà molto apprezzato dall’autore che infatti dichiara: ” Nulla consola maggiormente un autore di un romanzo che lo scoprire letture a cui egli non pensava e che i lettori gli suggeriscono”

IL TITOLO

Questo titolo nasce da un esametro latino posto proprio alla fine del racconto: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Nelle Postille l’autore spiega che si tratta di un verso da De contempo mundi di Bernardo Morliacense, un benedettino del XII secolo. Il messaggio che esprime è contenuto nell’idea che di tutte le cose scomparse ci restano solo nomi “…il lettore tragga le sue conseguenze…”.

http://www.atuttascuola.it/f/tonello/nome_della_rosa.htm

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